I recenti eventi connessi alla pandemia hanno messo fortemente alla prova l’assetto istituzionale del nostro paese: e non solo del nostro, a dire il vero.

Ne sono prova le forti tensioni politiche ed istituzionali che li hanno accompagnati e l’ampio dibattito giornalistico ed accademico che si è sviluppato ed è tutt’ora in corso: rilanciato altresì dal contestuale cinquantesimo anniversario dell’istituzione delle Regioni in Italia.

A dispetto dei tanti detrattori, più o meno interessati, tradizionali o dell’ultima ora, la positività dell’istituto regionale risiede soprattutto nell’aver creato degli Enti livelli dotati di autonoma capacità legislativa e di specifiche competenze e risorse (per quanto in larga misura derivate) in grado di arginare o almeno contrastare le tentazioni centralistiche, sempre ricorrenti nella tradizione statuale italiana.

L’assetto regionale ha certamente reso possibile l’espressione della maggiore capacità di autogoverno delle realtà più dinamiche del Paese, in particolare del Nord e del Centro: per quanto limitata da una determinazione uniforme delle competenze e delle prerogative.

Il regionalismo non è stato in grado – né, a dire il vero, poteva farlo – di colmare il divario di efficacia dell’azione pubblica, di sviluppo economico e di capitale sociale di cui storicamente soffre il Mezzogiorno d’Italia.

Ma anche questo insuccesso può essere foriero di insegnamenti.

Ad esempio, se ne potrebbe trarre l’indicazione che lo Stato italiano, più che rincorrere tentazioni accentratrici e logiche di omogeneizzazione, dovrebbe puntare a definire le coordinate generali per l’esercizio ordinato dell’autonomia delle realtà più avanzate e specializzarsi nell’azione di supporto e, ove necessario, di intervento diretto nelle realtà dove più debole e inefficace è la presenza pubblica.

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