Per più motivi, il dibattito pubblico di questo 2020 appare fortemente segnato dal tema del rapporto critico e contrastato fra Stato centrale e Regioni, del “caos istituzionale” che, talora polemicamente, si evoca per connotare questo difficile frangente.
Occasioni di queste discussioni, dai toni sovente accesi sono stati certamente il 50° anniversario dell’istituzione delle Regioni, poi la competizione elettorale per il rinnovo di diversi governi regionali e soprattutto la dialettica prodottasi tra istanze nazionali e territoriali sulla gestione della pandemia.
Con il tema si son misurati – e continuano a misurarsi – illustri costituzionalisti, opinionisti autorevoli e giornalisti d’assalto: dentro e fuori dall’accademia.
Per una volta può essere interessante – più che prendere partito per o contrastare l’una o l’altra tesi – provare a ricostruire i tratti comuni e salienti delle diverse posizioni critiche espresse e delle proposte risolutive conseguentemente avanzate: nell’assunto che analizzare da vicino, magari anche comprendere le ragioni di tanti attacchi, può giovare alla più efficace difesa delle prerogative regionali.
A grandi linee, si possono individuare due diversi approcci:
- l’uno, più polemico e dirompente, che nell’attuale contrasto legge l’esperienza regionale in termini totalmente negativi e ne propone in qualche modo il superamento o comunque il drastico ridimensionamento;
- l’altro che, condividendo la negatività del giudizio sulla situazione attuale, individua di questa ragioni meno strutturali e più specifiche e suggerisce soluzioni tutto sommato moderate e migliorative.
ABOLIRE LE REGIONI?
Le posizioni più radicali sostengono tipicamente che la storia d’Italia, e non solo nel Centro – Nord, è una storia di Comuni e, più di recente, di Province, mentre le Regioni sono descritte come un “castello istituzionale sovrapposto nel 1970, che non risponde ad alcun bisogno amministrativo, senza fondamento culturale, privo di radici storiche”.